Fecero fare una bara di cristallo, perché la si potesse vedere da ogni lato, ve la deposero, vi misero sopra il suo nome, a caratteri d'oro e scrissero che era figlia di re. Poi esposero la bara sul monte, e uno di loro vi rimase sempre a guardia. [...] sembrava che dormisse poiché era ancora bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come l'ebano. (Biancaneve). Generalmente, il primo dei genitori che entra in contatto con il piccolo è il padre che è chiamato a superare in contemporanea diverse prove. Mentre teme per la vita del figlio e per quella della propria compagna deve anche saperla sostenere in un momento per lei estremamente difficile, inoltre, deve avere i primi contatti con il personale medico e fornire le informazioni che da esso provengono sia alla madre del bambino che alla rete familiare e amicale che gravita attorno alla coppia (Coppola, Cassiba, 2004). La madre potrà vedere il bambino solo quando le proprie condizioni di salute potranno consentirlo, spesso trascorso qualche giorno dal parto, mentre, nel caso in cui il neonato sia stato trasferito in un ospedale diverso da quello dove è avvenuto il parto, l’attesa per lei diviene ancora più duratura, poiché deve attendere le proprie dimissioni per poter andare a visitare e conoscere di persona il proprio bambino. Per una madre non poter subito vedere il proprio bambino determina un grande senso di vuoto e stordimento che spesso va ad incrementare le paure, il timore e le fantasie sia per la morte del piccolo che per la sua diversità ed estraneità (Latmiral, Lombardo, 2007). Non può essere tracciato un profilo univoco dei genitori dei piccoli pretermine, ma una caratteristica che sembra ricorrere è lo stato di confusione in cui si trovano i neogenitori, una sorta di disorientamento che rende confuse non solo le notizie apprese dai medici sulle condizioni del bambino, ma anche il passare e lo scorrere del tempo. Sono costretti nell’attesa, impotenti, all’interno di uno “spazio bianco” come viene definito nel film di Francesca Comencini che racconta la storia di una madre che da alla luce una bambina prematura. Il reparto di terapia intensiva neonatale (TIN) risulta un luogo ostile per costruire o dare inizio ad un rapporto che dovrebbe essere intenso e pieno di gioia, qui è osteggiata la possibilità che si verifichi l’innamoramento tra il genitore e il proprio bambino. L’incontro con il bambino e la ricostruzione di un legame precocemente interrotto, avviene, quindi, in uno spazio dove accanto all’evento della nascita aleggia lo spettro della morte e della sofferenza, in quest’ottica non sembra irrilevante il richiamo al combattimento e alla guerra che i nomi e i macchinari dell’ospedale possono evocare, basta pensare ai rigidi orari, ai protocolli, al “reparto”, “divisione ospedaliera”, “primari”, “guardie mediche”, tutto questo induce a sperimentarsi in pericolo, costretti a combattere (Colombi, 2005). Per entrare nella stanza della terapia intensiva neonatale i genitori devono compiere un iter preparatorio, lasciare i propri oggetti ingombranti negli appositi armadietti, lavare bene le mani, indossare camici di carta, soprascarpe, mascherina e cuffietta, tutto questo segna il passaggio dal “fuori” al “dentro”, in un mondo quasi irreale con proprie leggi, tempi e ritmi, dentro al quale loro sono incerti e impacciati, fuori posto, a confronto con l’agilità e la naturalezza degli infermieri e dei medici nelle loro comode divise. “Dentro” la temperatura abbastanza alta contribuisce all’impressione di soffocamento, l’odore predominante è di medicinali e disinfettanti e manca totalmente il pianto dei neonati che contraddistingue i normali nidi (Latmiral, Lombardo, 2007). I genitori si sentono spesso impotenti di fronte agli “uteri di vetro” (Cena, Imbasciati, 2010) che sottolineano la fragilità dei loro occupanti, si trovano al cospetto di un bambino difficile da riconoscere come proprio, spesso intubato o con le nasocannule, collegato ad una flebo, con un monitor che segnala il suo battito cardiaco e un saturimetro che fa percepire ogni sua pausa respiratoria tramite segnali acustici. L’impatto con questo bambino (reale) lo allontana a grandi passi dal bambino immaginario e da quello fantasmatico [1] creati nella mente dei genitori durante tutta la gravidanza (Latmiral, Lombardo, 2007). Accade, così, che il bambino venga percepito come appartenente ad un’altra specie, diverso (Negri, 1994), con poche caratteristiche umane (Latmiral, Lombardo, 2007). Questi fragili neonati appaiono immobili o quasi, “Ora mi trovavo naufragato sulla riva, con ogni mio muscolo rigidamente legato […] non più nuotatore né volatile, giacevo assoggettato passivamente alle varie direzioni, incapace di sostenere il mio capo languido” (tratto da “Il brutto anatroccolo” di Meg Harris Williams, in Negri 1994). I rari movimenti sono poco armoniosi e scomposti ed è solo verso le 36 settimane di età concezionale (età gestazionale più età cronologica extrauterina) che è possibile riconoscere quando il bambino è sveglio (Coppola, Cassiba, 2004; Latmiral, Lombardo, 2007). Lo stato d’animo delle madri pretermine è spesso permeato dal senso di colpa dovuto alla convinzione di non aver saputo proteggere il proprio bambino e di non aver portato a termine un decorso naturale della gravidanza. Si sentono delle cattive madri, inutili, incapaci e spesso addirittura dannose per il proprio piccolo. Ad aumentare queste sensazioni c’è spesso anche un allontanamento emotivo nei confronti del bambino, la madre e il padre, frequentemente vivono una sorta di anticipazione del lutto convincendosi che il bambino non riuscirà a sopravvivere (Latmiral, Lombardo, 2007). Inoltre, i neogenitori devono inizialmente delegare le funzioni e i compiti di cura del proprio bambino al personale medico ed infermieristico dell’ospedale, ritardando l’acquisizione del proprio ruolo di accudimento e affidandolo ad un’istituzione medica avvertita come molto più competente, valida ed efficiente di quanto non possano essere loro, che si percepiscono spesso più come dei visitatori che come genitori (Coppola, Cassiba, 2004; Negri, 1994). Man mano che il bambino, crescendo, si mostra vitale, i genitori, e tutto il personale che lo circondano, riescono ad avvicinarsi emotivamente a lui, “umanizzandolo”, facilitando così la costruzione di un rapporto, dove si può mentalizzare e pensare il figlio stabilendo così un contatto emotivo più diretto dove è possibile attribuire al bambino caratteristiche e qualità personali uniche e specifiche (Negri, 1994). È molto importante che la madre e il padre acquisiscano, durante il periodo di ricovero, consapevolezza rispetto alle proprie capacità come genitori, in caso contrario, il momento della dimissione potrebbe comportare un ritorno di forti ansie e angosce dopo il momento di stabilità vissuto grazie ai miglioramenti di salute e peso del bambino. I genitori sperimentano incertezza sulle proprie capacità di accudimento di un bambino così diverso, spaventati dal doverlo gestire senza la supervisione delle infermiere, si affacciano in oltre gli interrogativi sul futuro sviluppo del bambino con il timore che la prematurità possa aver segnato tutto il suo percorso di crescita (Latmiral, Lombardo, 2007). [1] 1 Il “bambino immaginario” si riferisce alle fantasie coscienti, ai sogni ad occhi aperti che la donna e il partner possono aver condiviso e sperimentato durante la gravidanza, il “bambino fantasmatico” è invece aggrappato alle fantasie inconsce infantili e non ed è connesso alle relazioni oggettuali e rappresentazioni genitoriali (Lebovici, 1983).